Oltre i limiti: trekking al campo base dell’everest. Storia di un'avventura di Daniele Verdecchia

Il cammino che mi ha portato alle pendici dell’Everest è stato molto più di un trekking, è stato un viaggio dentro me stesso, tra spiritualità e contatto con la natura, che mi ha lasciato qualcosa di profondo nell’anima. È stata una sfida contro i miei limiti fisici e mentali, che mi ha ripagato con una profonda connessione con la natura e con me stesso.

Il cammino e le meraviglie dell’Himalaya.

Sono partito da Lukla a 2.860 mt e sono arrivato al campo base dell’Everest a 5.364 mt il 20 ottobre ‘24, 10 giorni di cammino per 137 km totali tra andata e ritorno. Ho camminato dalle sei alle otto ore al giorno; la mattina partivo da un villaggio, il pomeriggio arrivavo a quello successivo e ogni giorno salivo di quota. In alcuni villaggi, Namche Bazaar (3.500 mt) e Dingboche (4.100 mt), mi sono fermato due giorni per dare modo al corpo di acclimatarsi.

Strada facendo, ho ammirato e camminato tra le più belle montagne dell’Himalaya: l’Ama Dablam (6.812 mt), l’Island Peak (6.189 mt), il Pumori (7.145 mt), il Lhotse (8.516 mt) e, ovviamente l’Everest con i suoi 8.848 mt di altitudine.

Le sfide del trekking.

Tutto questo è stato straordinario per un appassionato di montagna, ma c'è anche un lato nascosto: quello dei giorni difficili, delle notti scomode nei lodge, delle docce non fatte, dei bagni all’esterno e di tutte le difficoltà da affrontare che avrebbero scoraggiato la maggior parte delle persone. A farmi compagnia, oltre al gruppo con il quale sono partito, c’erano anche il mal di testa che andava e veniva, la stanchezza e la paura; la paura di non farcela, di prendere una semplice storta, un raffreddore o il temutissimo mal di montagna che avrebbe potuto far svanire il mio sogno. Durante tutto il percorso sono stato sempre attento a come mi muovevo, a quello che mangiavo, cercavo di ascoltare il mio corpo e prevenire ogni piccola o grande problematica, anche se dentro di me sapevo che potevo stare attento a molte cose, ma l’imprevisto era sempre in agguato.

È stato tutto questo che mi ha travolto in un modo che non potevo nemmeno immaginare. Ecco perché, una volta raggiunto l’obiettivo, mi sono lasciato andare in un pianto liberatorio ed è stato il segno che ogni passo, ogni sacrificio… adesso aveva un senso.

OutFood: Energia italiana ad alta quota.

Durante il trekking, avere con me i prodotti di Tiberino Outfood è stato un vero piacere: pratici, nutrienti e di qualità, mi hanno permesso di affrontare lunghe giornate ad alta quota senza pensieri. Sono stati degli alleati perfetti per affrontare ore di cammino ad alta quota. Inoltre, poter gustare cibo italiano, a migliaia di chilometri da casa, ha reso ogni pasto un piccolo, grande momento di conforto e appagamento.

Spiritualità e tradizione.

La vera essenza del trekking all'Everest non è stata solo la maestosità delle montagne e dei paesaggi, ma anche toccare con mano la straordinaria umiltà e l’incredibile lavoro degli sherpa e dei portatori che ho incontrato lungo il percorso. Questi uomini e donne, spesso con solo un paio di infradito ai piedi, trasportano carichi incredibilmente pesanti, sfidando le difficoltà del terreno e l’altitudine. La bellezza del popolo nepalese mi ha colpito nel profondo. Ogni sguardo raccontava una storia, ogni sorriso era un'espressione di forza e speranza. Dalla dignità degli adulti alla gioia spensierata dei bambini, c’era qualcosa di straordinario in ogni persona che incontravo. In loro traspariva tutta la semplicità di un’umanità che, in ogni dettaglio, mi ricordava l’importanza della connessione con ciò che li circonda.

Anche la religiosità mi ha coinvolto e la si percepisce in tutto il Nepal. Non ha fatto eccezione il sentiero del trekking che portava al campo base dell’Everest, dove lungo tutto il percorso mi sono imbattuto nel profumo d’incenso, in santuari, stupa antichi, templi, ma soprattutto nelle ruote di preghiera e nelle famose bandierine tibetane, che si incontrano fino a 5.000 mt.

Riflessioni finali.

Il trekking al campo base dell'Everest, ha rappresentato per me non un semplice cammino da percorrere, ma una metafora della vita stessa. Mi ha confermato che i veri limiti non sono quelli fisici o mentali, ma quelli che noi stessi ci imponiamo. Superarli richiede coraggio, determinazione e, soprattutto, una connessione profonda con te stesso e con ciò che ti circonda…

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